Il Piccolo Principe di Antoine de Saint Exupery, dal capitolo 1 al 14.
Voce di Veronica Zito
Illustrazione di copertina Valentina Catto (www.valentinacatto.com)
Regia e Produzione Pierpaolo Bonante (www.pierpaolobonante.it)
Quando avevo sei anni, vidi una volta una meravigliosa illustrazione in un libro sulla Foresta Vergine che aveva per titolo «Storie vissute». Rappresentava un serpente boa che ingoiava una fiera. Eccovi la copia del disegno.
Nel libro c’era scritto: «I serpenti boa ingoiano le prede tutte intere, senza masticarle. Dopo non riescono più a muoversi e se la dormono per i sei mesi che impiegano a digerire».
Allora ho riflettuto molto sulle cose avventurose che possono capitare nella giungla e, sono riuscito anch’io a produrre, con una matita colorata, il mio primo disegno. Il mio disegno numero 1. Era fatto così:
Mostrai il mio capolavoro agli adulti e domandai se il mio disegno gli metteva paura.
Mi risposero: «Perché mai un cappello dovrebbe far paura?»
Nel mio disegno non c’era un cappello. C’era un serpente boa che digeriva un elefante. Allora ho disegnato quello che c’era dentro il serpente boa, così che i grandi potessero comprendere. Gli devi sempre spiegare tutte le cose. Il mio disegno numero 2 era questo:
I grandi mi suggerirono di mettere da parte i disegni dei serpenti boa aperti o interi, e di interessarmi invece alla geografia, alla storia, alla matematica e alla grammatica. È così che, all’età di soli sei anni, ho abbandonato una meravigliosa carriera da pittore. Mi aveva scoraggiato l’insuccesso del mio disegno numero 1 e del mio disegno numero 2. I grandi non capiscono mai le cose da soli, e per i bambini è pesante dover essere sempre lì a spiegare tutti i momenti.
Pertanto ho dovuto scegliere un altro mestiere e ho imparato a pilotare aerei. Ho volato un po’ in ogni parte del mondo. E davvero la geografia, mi è tornata molto utile. Potrei riconoscere, al primo colpo d’occhio, la Cina dall’Arizona. Questo è molto utile, se uno si perde di notte.
Così, nel corso della mia vita, ho avuto incontri con molte persone serie. Ho passato molto tempo con gli adulti. Li ho osservati molto da vicino. Non posso dire di aver migliorato di molto il mio giudizio.
Quando mi capitava di incontrarne uno che mi sembrava un po’ sveglio, lo mettevo alla prova con il mio disegno numero 1 che ho sempre conservato. Volevo verificare se fosse veramente una persona di larghe vedute. Ma mi rispondevano sempre: «È un cappello.» Allora non parlavo né di serpenti boa, né di foreste vergini, né di stelle. Mi sintonizzavo con lui. Gli parlavo di bridge, di golf, di politica e di cravatte. E l’adulto era ben felice di conoscere un uomo così ragionevole.
Per questo ho vissuto una vita solitaria, senza persone con cui potessi davvero parlare, fino a sei anni fa, quando ebbi un guasto nel deserto del Sahara. Qualcosa nel mio motore s’è rotto. E siccome non c’erano con me né un meccanico né passeggeri, mi provai a fare, tutto da solo, la complessa riparazione. Per me era una questione di vita o di morte. Avevo acqua da bere per appena otto giorni.
Pertanto la prima sera mi sistemai a dormire sulla sabbia, lontano mille miglia dal primo posto abitato. Ero ben più isolato di un naufrago sulla zattera in mezzo all’Oceano. Quindi potete immaginare la mia sorpresa, quando al levarsi del sole una buffa vocina mi svegliò. Diceva:
— Per cortesia… disegnami una pecora!
— Che?!
— Disegnami una pecora…
Io balzai in piedi come se fossi stato colpito da una saetta. Mi stropicciai gli occhi. Osservai con cura. E vidi un ometto piuttosto fuori del comune che mi scrutava attentamente in modo molto serio. Ecco qua il ritratto migliore che, più tardi, riuscii a fare di lui. Ma, di sicuro, il mio disegno, è decisamente meno carino dell’originale. Non è certo per colpa mia. All’età di sei anni, i grandi mi avevano demotivato dal fare il pittore, e non ho più imparato a disegnare nulla, a parte i boa interi o aperti.
Osservai dunque questa apparizione con occhi scasati dallo stupore. Non dimenticate che io mi trovavo a mille miglia dal primo posto abitato. Però il mio ometto non mi pareva sperduto, né stravolto dalla fatica, dalla fame, dalla sete o morto di paura. Non aveva affatto l’aspetto di un bambino sperduto in mezzo al deserto, a mille miglia di distanza dal primo luogo abitato. Quando alla fine riuscii ad aprir bocca gli dissi:
— Ma… che cosa ci fai qui?
E egli mi ripeteva, con dolcezza, come fosse una cosa molto seria:
— Per cortesia… disegnami una pecora…
Quando il mistero è troppo impenetrabile, non si osa disubbidire. Mi sembrava così assurdo, lontani mille miglia da luoghi abitati e a rischio di morte, presi dalla tasca un foglietto di carta e una penna. Ma in quel momento mi ricordai che avevo studiato soprattutto la geografia, la storia, la matematica e la grammatica e dissi all’ometto (con un po’ di malumore) che io non sapevo disegnare. Egli mi rispose:
— Non importa. Disegnami una pecora.
Siccome non avevo mai disegnato una pecora rifeci, per lui, uno dei due disegni che solo sapevo fare, quello del boa intero. Fui sorpreso di sentire l’ometto rispondermi:
— No! No! non voglio un elefante dentro un boa. Il boa è molto pericoloso, e l’elefante è molto ingombrante. Da me è tutto piccolo. Mi serve una pecora. Disegnami una pecora.
Quindi la disegnai.
L’osservò attentamente, e poi:
— No! questa è già molto malata. Fanne un’altra.
Disegnai questo:
Il mio amico sorrise gentilmente, con indulgenza:
— Lo vedi bene anche tu… questa non è una pecora, è un ariete. Ha le corna…
Dunque rifeci ancora una volta il mio disegno:
Ma fu respinto, come i precedenti:
— Questa è troppo vecchia. Voglio una pecora che abbia ancora molto da vivere.
Allora, spazientito, siccome dovevo iniziare a smontare il mio motore, scarabocchiai questo disegno.
E gliela misi giù così:
— Questa è la sua cassetta. La tua pecora è dentro.
Fui però molto sorpreso di vedere il viso del mio giovane giudice illuminarsi:
— Questo è proprio quello che volevo! Pensi che questa pecora abbia bisogno di molta erba?
— Perché?
— Perché da me è tutto piccolo…
— Basterà certamente. Ti ho dato una pecora molto piccola.
Chinò la testa verso il disegno:
— Non così piccola da… Oh! S’è addormentata…
E fu così che conobbi il piccolo principe.
Ecco qui il miglior ritratto che, dopo, riuscii a fare di lui.
Impiegai molto tempo per capire da dove veniva. Il piccolo principe, che mi faceva domande in continuazione, non sembrava ascoltare mai le mie. Ci sono delle cose dette per caso che, poco a poco, mi hanno spiegato tutto. Così, quando vide il mio aereo per la prima volta (non ve lo sto a disegnare, è un disegno troppo complicato per me) mi domandò:
— Cos’è quella roba?
— Non è una roba. Vola. È un aereo. È il mio aereo.
Ero fiero di fargli sapere che io volavo. Però lui esclamò:
— Come! Tu sei caduto dal cielo?
— Sì, confermai modestamente.
— Ah! Questa è buffa…
E il piccolo principe scoppiò in una risata così graziosa che m’irritai molto. Desidero che i miei guai vengano presi sul serio. Poi aggiunse:
— Dunque, anche tu vieni dallo spazio! Da quale pianeta vieni?
All’improvviso intravvidi uno spiraglio nel mistero della sua presenza, e lo interrogai in modo brusco:
— Dunque tu vieni da un altro pianeta?
Ma non mi rispose. Scosse dolcemente la testa guardando il mio aereo:
— Di sicuro con quello non puoi essere venuto da molto lontano…
Divenne pensieroso. Poi, trasse la mia pecora dalla tasca, e si immerse nella contemplazione del suo tesoro.
Potete ben immaginare quanto incuriosii di quella mezza confidenza su “gli altri pianeti”. Dunque mi sforzai di saperne di più:
— Tu da dove vieni, ometto mio? Dov’è “casa tua”? Dove porterai la mia pecora?
Mi rispose solo dopo aver riflettuto in silenzio:
— C’è di buono che la cassetta che mi hai dato servirà da riparo per la notte.
— Di sicuro. E se tu sarai gentile, ti darò anche una corda per tenerla legata durante il giorno. E un paletto.
L’affermazione parve turbare il piccolo principe:
— Tenerla legata? Che buffa idea!
— Ma se non la tieni legata, andrà in giro, e si perderà…
Il mio amico scoppiò a ridere, un’altra volta.
— Ma dove vuoi che vada?!
— Non importa. Dritto davanti a sé…
Allora il piccolo principe ribatté serio:
— Non fa nulla, dalle mie parti è tutto talmente piccolo!
E, forse con una punta di malinconia, aggiunse:
— Dritto davanti a sé non si va molto lontano…
Così ero venuto a sapere una seconda cosa molto importante: il pianeta da cui proveniva era a malapena più grande di una casa!
Questo non poteva lasciarmi stupefatto. Sapevo bene che oltre ai pianeti di grandi dimensioni come la Terra, Giove, Marte, Venere, ai quali noi abbiamo dato un nome, ce ne sono centinaia d’altri che talvolta sono così piccini che a stento si possono localizzare con un telescopio. Quando un astronomo ne scopre uno, gli dà un numero per nome. Lo chiama per esempio: “l’asteroide 3251”.
Ho validi motivi di ritenere che il pianeta da cui proveniva il piccolo principe fosse l’asteroide B 612. Questo asteroide non è stato visto che una sola volta, nel 1909, da un astronomo turco.
In quella occasione aveva tenuto una notevole relazione sulla sua scoperta al Congresso Internazionale d’Astronomia. Tuttavia i colleghi non lo avevano preso sul serio, a causa del modo in cui si era vestito. Gli adulti sono fatti così.
Fortunatamente per la reputazione dell’asteroide B 612 un dittatore turco impose al suo popolo, pena la morte, di vestirsi al modo degli europei. Nel 1920 l’astronomo comunicò una seconda volta la sua scoperta, presentandosi con un abito molto elegante. E questa volta tutti gli diedero retta.
Se vi ho raccontato tutti questi dettagli sull’asteroide B 612 e se vi ho comunicato il suo numero, è per come sono fatti gli adulti. Gli adulti amano le cifre. Quando gli raccontate di un nuovo amico che vi siete fatti, mai vi domanderanno qualche cosa di essenziale. Non vi chiederanno mai: «Com’è il suono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Colleziona farfalle?» Invece vi domanderanno «Quanti anni ha? Quanti fratelli ha? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?» Solo sapendo queste cose crederanno di conoscerlo. Se voi direte a un adulto: «Ho visto una bella casa in mattoni rosa, con dei gerani alle finestre e dei colombi sul tetto…» non riusciranno ad immaginarsela. Ecco cosa gli si deve dire: «Ho visto una casa da centomila franchi.» Allora esclameranno: «Ma quant’è bella!»
Così, se voi gli dite: «La prova che il piccolo principe è esistito veramente sta nel fatto che era meraviglioso, che rideva, e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora, è la prova che esiste» loro scrolleranno le spalle e vi tratteranno da bambinetto! Invece se gli dite: «Il pianeta da dove viene è l’asteroide B 612» allora si convinceranno, e vi lasceranno in pace senza farvi troppe domande. Sono fatti così. Non li biasimo. I bambini devono essere molto indulgenti con gli adulti.
Ma, naturalmente, noi che capiamo la vita, non ci interessiamo molto ai numeri! Mi sarebbe piaciuto cominciare questo racconto alla maniera delle fiabe. Avrei voluto dire:
«C’era una volta un piccolo principe che viveva su di un pianeta poco più grande di lui, e che aveva bisogno di un amico…» Per coloro che capiscono la vita, sarebbe stato molto più vicino al vero.
Non mi fa piacere che si legga il mio libro con superficialità. Provo una grande afflizione nel raccontare questi ricordi. Sono trascorsi già sei anni dal giorno in cui il mio amico se n’è andato via con la sua pecora. Se ne scrivo, è per non dimenticarlo. È triste dimenticare un amico. È il mondo intero che non ha più amico. E io rischio di assomigliare agli adulti che non si interessano ad altro che di numeri. È per questo che ho acquistato una scatola di colori e delle matite. È duro riprendere a disegnare alla mia età, quando non ho mai provato a disegnare altro che un boa intero e un boa aperto all’età di sei anni. Prometto che mi eserciterò per fare dei ritratti che siano rassomiglianti il più possibile. Ma non sono affatto sicuro di riuscirci. Magari in un disegno è fatto bene, ma in un altro invece non assomiglia più. Mi confondo anche sulla statura. Qui il piccolo principe è venuto troppo grande. Là è troppo piccolo. Sono incerto anche sul colore del suo vestito. E allora tento e ritento, a volte con successo, a volte no. Finirò per sbagliare alcuni dei dettagli più importanti. Ma questo dovrete perdonarmelo. Il mio amico non mi dava mai spiegazioni. Forse riteneva che fossi come lui. Ma sfortunatamente, io non riesco a vedere le pecore dentro una cassa. Si può dire che io sia diventato un po’ come un adulto. Sono invecchiato.
Tutti i giorni vengo a sapere qualche cosa sul pianeta, sulla partenza, sul viaggio. Veniva fuori da sé, casualmente mentre si discorreva. È stato così che al terzo giorno sono venuto a conoscenza del dramma baobab.
Anche questa volta fu grazie alla pecora, quando all’improvviso il piccolo principe m’interrogò, come fosse attanagliato da un grave dubbio:
— Davvero le pecore mangiano gli arbusti?
— Sì. È vero.
— Ah! Ne sono contento.
Non capivo perché fosse tanto importante accertarsi che le pecore mangino gli arbusti. Ma il piccolo principe aggiunse:
— Perciò mangiano anche i baobab?
Feci osservare al piccolo principe che i baobab non sono arbusti, ma alberi grandi come una chiesa e anche se avesse portato con sé una mandria di elefanti non avrebbe fatto fuori un solo baobab.
L’idea della mandria di elefanti fece ridere il piccolo principe:
— Si dovrebbe metterli l’uno sull’altro…
Ma osservò con saggezza:
— I baobab, prima di diventare grandi, devono crescere.
— Esatto! Ma per quale motivo vuoi che le tue pecore si mangino i piccoli baobab?
Mi rispose: — Ah beh! Secondo te? Come se si trattasse di cosa evidente. E mi ci volle molta perspicacia per capire da solo questa questione.
In effetti, sul pianeta del piccolo principe c’erano, come su ogni altro pianeta, delle piante utili e delle infestanti. E di conseguenza della semenza buona dalle piante utili e della semenza cattiva dalle piante infestanti. Ma i semi sono invisibili. Dormono nei recessi della terra fino a quando a qualcuno di loro non gli punge vaghezza di risvegliarsi. Quindi getta verso il sole, dapprima con timidezza, un delizioso piccolo germoglio inoffensivo. Se si tratta di un germoglio di rapa o di rosa, lo si può tranquillamente lasciar venire su come vuole. Se invece si tratta di una infestante, si deve estirparla subito, non appena la si è riconosciuta. Ebbene sul pianeta del piccolo principe ci sono dei semi pericolosissimi… e questi sono i semi di baobab. L’intero suolo del pianeta ne era infestato. E non si riesce più a disfarsi di un baobab, se non lo si estirpa per tempo. Finisce per occupare il pianeta intero. Lo perfora con le sue radici. E se il pianeta è troppo piccolino e i baobab sono troppi, lo fanno scoppiare.
«Si tratta di darsi una regola precisa» mi spiegò più tardi il piccolo principe. «Quando al mattino uno ha finito di lavarsi, ci si deve dedicare diligentemente a ripulire anche il pianeta. Ci si deve impegnare a estirpare con regolarità i baobab non appena li si riesce a distinguere dalle rose, alle quali assomigliano molto quando sono ancora molto giovani. Si tratta di un lavoro davvero noioso, ma molto facile.»
E un giorno mi suggerì di darmi da fare per produrre un bel disegno che facesse capire tutto questo ai bambini della mia gente. «Se un giorno viaggeranno» mi disse «questo potrà servirgli. Talvolta rimandare un lavoro non ha conseguenze. Ma se si tratta di baobab, è sempre una catastrofe. Ho visitato un pianeta abitato da un tizio pigro. Aveva lasciato crescere tre arbusti…»
Così, secondo le indicazioni avute dal piccolo principe, ho disegnato quel pianeta. Non mi garba assumere un tono moraleggiante. Ma il pericolo costituito dai baobab è così poco noto, e i rischi che correrebbero coloro che si smarrissero su di un asteroide sono così rilevanti, che, in questa occasione, voglio fare una eccezione alla mia riserva. Perciò dico: «Bambini! Fate attenzione ai baobab!» E per mettere sull’avviso i miei amici di un rischio che, come ho fatto io, hanno sempre sfiorato, per non averlo mai avuto presente, ho lavorato a lungo a questo disegno. La lezione che ho dato giustifica l’impegno profuso. Può darsi che voi mi domanderete: “Perché in questo libro, non ci sono altri disegni così grandiosi come il disegno dei baobab?” La risposta è molto semplice: ci ho provato, ma non ci sono riuscito. Quando disegnai i baobab ero animato da un sentimento di urgenza.
Ah piccolo principe, fu così, a poco a poco, che scoprii la tua piccola vita malinconica! Per parecchio tempo non avesti altro svago che la dolcezza dei tramonti. Venni a conoscenza di questo nuovo aspetto al mattino del quarto giorno, quando mi dicesti:
— Amo davvero molto il tramonto. Andiamo a vederne uno…
— Ma si deve aspettare…
— Aspettare che cosa?
— Aspettare che il sole tramonti.
All’inizio assumesti un’aria molto stupita, poi hai riso di te stesso. E mi hai detto:
— Mi scordo sempre che non sono più a casa mia!
In effetti, tutti sanno che quando il sole è al mezzogiorno negli Stati Uniti, in Francia sta tramontando. Basterebbe poter andare in Francia in un minuto per assistere al tramontare del sole. Sfortunatamente la Francia è troppo lontana. Invece, sul tuo pianeta così piccino, ti bastava spostare la sedia di qualche passo. E rimiravi il crepuscolo tutte le volte che lo desideravi…
— Una volta, ho visto il sole tramontare quarantatré volte!
E un po’ più tardi, aggiungesti:
— Sai… quando si è tanto tristi si amano i tramonti…
— Allora la volta dei quarantatré tramonti eri tanto triste?
Ma il piccolo principe non rispose.
Il quinto giorno, sempre per via della pecora, mi fu rivelato questo segreto della vita del piccolo principe. Mi domandò in modo brusco, senza tanti giri di parole, come fosse l’esito di un problema lungamente meditato nel silenzio:
— La pecora, così come mangia gli arbusti può mangiarsi anche dei fiori?
— La pecora si mangia tutto quello che incontra.
— Perfino i fiori che hanno delle spine?
— Sì. Perfino i fiori che hanno delle spine.
— Allora a cosa servono le spine?
Io non lo sapevo. In quel momento ero troppo occupato a cercare di svitare un bullone troppo stretto del mio motore. Cominciavo ad essere in ansia perché il guasto si rivelava essere molto serio, e l’acqua da bere che scarseggiava mi faceva temere il peggio.
— Le spine, a che servono?
Il piccolo principe non rinunciava mai a una risposta, una volta che aveva posto una domanda. Ero nervoso per via del mio bullone e risposi una cosa qualsiasi.
— Le spine, non servono a un bel niente, averle è pura malvagità da parte dei fiori!
— Oh!
Ma dopo un silenzio rivolto contro di me, con una sorta di risentimento esclamò:
— Non ti credo! I fiori sono inermi. Sono ingenui. Cercano di rassicurarsi come meglio possono. Pensano di essere temibili con le loro spine…
Io non ribattei nulla. Ad un certo punto, mi dicevo: «Se questo bullone mi resiste ancora, lo farò saltare via con una martellata». Il piccolo principe m’importunò nuovamente:
— Credi che i fiori, cioè tu sei convinto, che i fiori…
— Ma no, ma no! Io non credo nulla! Ti ho risposto una cosa a caso. Io mi sto occupando di cose serie, io!
Mi guardò stupefatto.
— Di cose serie!
Mi stava guardando, io avevo un martello in mano, le dita nere di catrame, chino su una cosa che doveva sembrargli molto brutta.
— Parli come gli adulti!
Mi vergognai un po’. Ma lui, impietoso, aggiunse:
— Tu confondi tutto… mischi tutto!
Era veramente molto seccato. Scuoteva al vento i suoi capelli dorati:
— Sono stato sul pianeta dove vive il Signor cremisi. Non gli piace annusare i fiori. Non si è mai curato di guardare una stella. Non ha mai amato. Non ha mai fatto altro che conteggi. E tutto il giorno ripete come te: «Io sono una persona seria! Io sono una persona seria!» e questo lo fa inorgoglire. Ma lui non è un uomo, è un fungo!
— Un che?
— Un fungo!
Il piccolo principe ora era completamente sbiancato dalla rabbia.
— È da milioni di anni che i fiori producono le loro spine. È da milioni di anni che le pecore mangiano i fiori. Non è allora forse serio sforzarsi di comprendere perché si danno tanto da fare per dotarsi di spine che non servono a un bel nulla? Non è forse importante la guerra tra le pecore e le rose? Tutto questo non è forse più importante e più serio dei conteggi di un grosso Signor rosso? E se conoscessi, proprio io, un fiore unico al mondo, che non esiste da nessuna altra parte se non sul mio pianeta, che potrebbe venire annientato in un solo boccone da una pecorella, così, un mattino, senza che questa si renda conto di quello che ha fatto, non è questo forse importante?
Arrossì, poi ricominciò:
— Se uno ama un fiore di cui esiste un unico esemplare tra milioni e milioni di stelle, questo è sufficiente a farlo felice quando lo guarda. Può dire tra sé e sé: «Il mio fiore è là da qualche parte…» Ma se la pecora si mangia il fiore, per lui sarebbe come se di colpo tutte le stelle si spegnessero. E non è forse importante tutto questo!
Non poté aggiungere altro. Scoppiò all’improvviso in singhiozzi. Intanto era sopraggiunta la notte. Io avevo abbandonato i miei ferri. Oramai mi facevo beffe del mio martello, del mio bullone, della sete e della morte. C’era una stella, cioè un pianeta, il mio, la Terra, con un piccolo principe da consolare! Lo presi tra le braccia. Lo cullai. Gli dissi: «Il fiore che ami non è in pericolo… disegnerò una museruola per la tua pecora… disegnerò una corazza per il tuo fiore… io…» Non sapevo più che aggiungere. Mi sentivo molto in imbarazzo. Non sapevo come andargli incontro, o stargli vicino… È talmente misterioso il paese delle lacrime.
Imparai ben presto a conoscere meglio questo fiore. Sul pianeta del piccolo principe c’erano sempre stati dei fiori molto semplici, impreziositi da un solo giro di petali, che non occupavano molto posto e che non davano fastidio a nessuno. Facevano la loro comparsa nell’erba, al mattino, per poi sparire alla sera. Ma questo fiore era germinato un giorno da un seme portato da non si sa dove, e il piccolo principe aveva tenuto sotto stretta sorveglianza questo germoglio, che non assomigliava a nessun altro germoglio. Avrebbe potuto trattarsi di una nuova varietà di baobab. Ma l’arbusto smise presto di crescere e si preparò a fiorire. Il piccolo principe, che assisteva alla formazione di un enorme bocciolo, aveva sentore che l’aspettava una fioritura miracolosa, ma il fiore non finiva mai di prepararsi per essere bello, protetto nella sua camera verde. Sceglieva con cura i colori. Si vestiva lentamente, sistemandosi i petali uno ad uno. Non voleva certo sbocciare tutto sgualcito, come il papavero. Non voleva apparire che nel pieno della sua raggiante bellezza. Eh, sì! C’era della civetteria! La sua misteriosa preparazione si prolungò dunque per giorni e giorni. E poi, un mattino, giusto nel momento in cui il sole si levava all’orizzonte, fece mostra di sé.
Il fiore, che si era preparato con tanta meticolosità, disse sbadigliando:
— Ah! Mi sono svegliato proprio in questo momento… chiedo scusa… sono ancora tutto scarmigliato…
Il piccolo principe allora, non poté trattenere la sua ammirazione:
— Quanto sei bello!
— Sì, è vero — rispose dolcemente il fiore. — E sono nato al sorgere del sole…
Il piccolo principe immaginò che non fosse troppo modesto, in compenso era così commovente!
— Penso che sia giunta l’ora della colazione — e aveva subito aggiunto — avrete la bontà di prendervi cura di me…
Il piccolo principe, tutto emozionato, andò a procurarsi un innaffiatoio pieno d’acqua fresca, per servirlo al fiore.
Così, ben presto l’avrebbe tormentato con una vanità un po’ ombrosa. Un giorno, per esempio, parlando delle sue quattro spine, aveva detto al piccolo principe:
— Potrebbero venire delle tigri con i loro artigli!
— Non ci sono tigri sul mio pianeta — aveva obiettato il piccolo principe — e poi le tigri non mangiano l’erba.
— Io non sono erba — aveva risposto dolcemente il fiore.
— Mi scusi…
— Non temo le tigri, le correnti d’aria invece mi fanno orrore. Non avete per caso un paravento?
«Orrore delle correnti d’aria… ce ne sono di occasioni, per una pianta, aveva sottolineato il piccolo principe. Questo fiore è molto esigente…»
— Alla sera mi riparerete sotto una palla di vetro. È troppo freddo qui da voi. Questa messa a dimora è stata fatta male. Là da dove vengo io…
Ma si interruppe. Era venuto sotto forma di seme. Non poteva mica conoscere altri mondi. Umiliato per essersi lasciato beccare a imbastire una balla con tanta ingenuità, aveva dato due o tre colpetti di tosse, per mettere il piccolo principe in difetto:
— Questo paravento…?
— Lo stavo cercando, ma mi avete fermato a discorrere!
Allora lui si era sforzato di tossire per fargli venire i rimorsi.
Così il piccolo principe, malgrado la buona considerazione che l’amore gli ispirava, aveva incominciato a dubitare di lui. Aveva preso troppo sul serio delle parole senza importanza, e si era immalinconito.
«Non avrei dovuto dargli ascolto» mi confidò un giorno «non si deve mai dare ascolto a un fiore. Ci si deve limitare a rimirarli e annusarli. Il mio fiore profumava il mio pianeta, ma io non potevo gioirne. Quella storia degli artigli, che mi aveva infastidito così tanto, mi avrebbe invece dovuto intenerire…»
Mi confidò ancora:
«Non lo capii. Lo avrei dovuto giudicare da quello che faceva, non dalle sue parole. Mi profumava e mi illuminava. Non avrei mai dovuto scappar via! Avrei dovuto indovinare la tenerezza che si celava dietro le sue piccole astuzie. I fiori sono così contraddittori! A quel tempo ero troppo giovane per sapere come amarlo.»
Penso che per la sua evasione abbia approfittato del passaggio di uno stormo di oche selvatiche durante una migrazione. Il mattino della partenza rassettò ben bene il suo pianeta. Ripulì meticolosamente i vulcani attivi. Possedeva due vulcani attivi. Era una comodità quando al mattino si doveva scaldare qualcosa per fare colazione. Possedeva anche un vulcano spento. Ma, come era solito dire, «Non si sa mai!». Ripulì pertanto anche il vulcano spento. Se i vulcani vengono tenuti ben puliti, ribollono dolcemente e con regolarità, senza eruzioni. Le eruzioni vulcaniche sono come gli incendi nei camini. È chiaro che sul nostro pianeta noi siamo troppo piccoli per tenere puliti i vulcani. È per questa ragione che ci danno tanti problemi.
Così il piccolo principe estirpò, con un po’ di malinconia, i restanti germogli di baobab. Riteneva che non avrebbe mai più avuto occasione di ritornare. Ma tutte queste attività, a lui così familiari, quel mattino gli sembravano particolarmente dolci. E quando, una volta innaffiato il fiore per l’ultima volta, si accinse a ricoverarlo sotto la palla di vetro, fu preso dalla voglia di piangere.
— Addio — disse al suo fiore.
Ma lui non gli rispose.
— Addio — ripeté lui.
Il fiore diede un colpetto di tosse. Ma non era a causa di un raffreddore.
— Sono stato uno stupido — disse infine il fiore. Ti chiedo scusa. Cerca di essere felice.
Restò colpito dalla mancanza di rimproveri, e rimase lì sconcertato, con la palla di vetro sospesa per aria. Non riusciva a capire questa dolce tranquillità.
— E sì, ti amo — gli disse il fiore. Tu non lo hai capito per colpa mia. Questo non ha alcuna importanza. Ma tu sei stato stupido quanto me. Cerca di essere felice… e lascia perdere la palla di vetro. Io non lo voglio più.
— Ma il vento…
Non sono così raffreddato… L’aria fresca della notte mi gioverà. Sono un fiore.
— Ma gli animali…
— Si dovranno pur sopportare due o tre bruchi se si vogliono incontrare le farfalle. Dicono che siano così belle. Sennò chi verrà a farmi visita? Tu sarai via. Quanto agli animali più grossi, non li temo. Ho i miei artigli.
E ingenuamente mi mostrò le sue quattro spine. Poi aggiunse:
— Non indugiare ancora, è fastidioso. Hai deciso di partire. Allora vai.
Non voleva che io lo vedessi piangere. Era un fiore così orgoglioso…
La sua posizione era nella regione degli asteroidi 325, 326, 327, 328, 329 e 330. Prese dunque a visitarli, per cercarsi un lavoro e per istruirsi.
Il primo era abitato da un re. Il Re, assiso su un trono molto semplice e maestoso nello stesso tempo, era vestito di porpora e d’ermellino.
— Ah! Ecco un suddito — esclamò il Re quando scorse il piccolo principe.
«Come può sapere che sono uno dei suoi sudditi se non mi ha mai visto?!»
Non sapeva che, per i re, il mondo è molto semplice. Tutti gli uomini sono sudditi.
— Avvicinati, cosicché io ti veda meglio — gli disse il Re, che era molto fiero di poter essere re di qualcuno.
Il piccolo principe si guardò intorno in cerca di qualcosa su cui sedersi, ma il pianeta era tutto ricoperto dal magnifico manto d’ermellino. Restò dunque in piedi, e, siccome era un po’ stanco, sbadigliò.
— Sbadigliare al cospetto di un re è contro il cerimoniale, gli disse il monarca. Te lo proibisco.
— Non posso evitarlo — rispose tutto confuso il piccolo principe. Ho fatto un lungo viaggio e non ho dormito…
— Se è così — gli rispose il Re — io ti ordino di sbadigliare. Sono anni che non vedo persone che sbadigliano. Gli sbadigli per me sono un’attrazione. Andiamo! sbadiglia di nuovo. È un ordine.
— Mi intimorite… non posso più farlo… disse il piccolo principe arrossendo.
— Hummm! — rispose il Re. — Allora io… io ti ordino sia di sbadigliare un po’ sia di…
Farfugliò un po’ mostrandosi seccato.
Dovete capire che al Re importava essenzialmente solo che la sua autorità fosse rispettata. Non tollerava in alcun modo la disobbedienza. Era un monarca assoluto. Ma, siccome era anche molto buono, dava degli ordini ragionevoli.
«Se ordinassi» diceva solitamente «se ordinassi a un generale di trasformarsi in un uccello marino, e lui non ci riuscisse, non sarebbe colpa del generale. Sarebbe solo colpa mia.»
— Posso sedermi? — domandò timidamente il piccolo principe.
— Ti ordino di sederti — rispose il re, che scostò maestosamente una falda del suo mantello di ermellino.
Il piccolo principe era stupito. Il pianeta era minuscolo. Su cosa il Re poteva mai regnare?
— Maestà… — gli chiese — chiedo scusa, ma vi voglio fare una domanda…
— Io ti ordino di farmi una domanda — s’affrettò a dire il Re.
— Maestà… su cosa esattamente regnate?
— Su tutto — rispose il Re, con grande semplicità.
Su tutto?
Con un gesto discreto il Re indicò il suo pianeta, gli altri pianeti e le stelle.
— Su tutto quanto? — insistette il piccolo principe.
— Su tutto quanto… — rispose il Re.
Dunque non si trattava solo di un monarca assoluto, ma di un monarca universale.
— E le stelle, ubbidiscono?
— Certamente, — gli rispose il Re — obbediscono all’istante. Io non tollero l’indisciplina.
Un potere tale meravigliò il piccolo principe. Se lo avesse avuto lui stesso, avrebbe potuto assistere, non a quarantaquattro, ma a settantadue, o anche a cento o duecento tramonti nella stessa giornata, senza neppure dover spostare mai la sedia! E dal momento che gli salì un po’ di tristezza al ricordo del suo piccolo pianeta abbandonato, si azzardò a sollecitare una grazia al Re:
— Vorrei tanto vedere un tramonto… Fatemi contento… Ordinate al sole di tramontare…
— Se ordinassi a un generale di svolazzare da un fiore all’altro come una farfalla, o di comporre una tragedia, o di trasformarsi in un uccello marino, e se il generale non riuscisse a eseguire l’ordine ricevuto, chi, tra lui e me, sarebbe in torto?
— Sareste voi in torto — disse senza esitazione il piccolo principe.
— Esatto. Si deve esigere da ciascuno quello che ciascuno può dare, — replicò il Re — l’autorità si basa per prima cosa sulla ragione. Se ordini al tuo popolo di gettarsi nel mare, farà la rivoluzione. Io ho il diritto di esigere l’obbedienza perché i miei ordini sono ragionevoli.
— E il mio tramonto? — gli ricordò il piccolo principe che non dimenticava mai una richiesta una volta che l’aveva posta.
— Avrai il tuo tramonto. L’esigerò. Ma, secondo l’arte di governare, attenderò che il momento sia propizio.
— Quando sarà? — s’informò il piccolo principe.
— Hem… hem… — gli rispose il Re, che subito si diede a consultare un grande calendario, — hem… hem… questa sera, verso… verso… questa sera alle sette e quaranta circa! E vedrai come sarò obbedito senza storie.
Il piccolo principe sbadigliò. Era dispiaciuto per il tramonto che non aveva avuto. E poi incominciava già ad annoiarsi un po’:
— Non ho più nulla da fare qui — disse al Re. — Voglio ripartire!
— Non partire, — replicò il Re, che era tanto fiero d’avere un suddito. — Non partire, ti nomino ministro.
— Ministro di che?
— Della… della giustizia!
— Ma se non c’è nessuno da giudicare!
— Non si può mai dire — ribatté il Re. — Non ho ancora completato il giro del mio reame. Sono ben vecchio, non ho posto per una carrozza e mi stanco ad andare a piedi.
— Oh! Beh, ho già visto io dappertutto — replicò il piccolo principe che si sporse per gettare ancora un’ultima occhiata sull’altra faccia del pianeta. — Non c’è nessuno neanche là…
— Dunque non ti resta che giudicare te stesso, — gli rispose il Re. — È la cosa più difficile. È molto più difficile giudicare se stessi che giudicare gli altri. Se riuscirai a giudicare correttamente te stesso, allora sarai un vero saggio.
— Io posso giudicare me stesso ovunque — disse il piccolo principe. — Non ho mica bisogno di restare qui.
— Hem hem… — disse il Re — sono convinto che sul mio pianeta, da qualche parte, c’è un vecchio topo. Tu lo dovrai condannare a morte, di tanto in tanto. In questo modo la sua vita dipenderà dalla tua giustizia. Ma lo grazierai ogni volta, per economizzare. Non ce n’è che uno solo.
— A me, — replicò il piccolo principe — non piace condannare a morte, e sono deciso ad andarmene.
— No — disse il Re.
Però il piccolo principe, che aveva completato i preparativi per la partenza, non voleva dare un dispiacere al vecchio monarca:
— Se vostra Maestà desidera essere puntualmente obbedito, potrebbe darmi un ordine ragionevole. Potrebbe, per esempio, ordinarmi di partire entro un minuto. Mi pare che le condizioni siano favorevoli…
Il Re non rispose; dapprincipio il piccolo principe esitò, poi trasse un sospiro e se ne andò.
— Ti nomino mio ambasciatore — si affrettò allora a gridare il Re.
Sembrava proprio avere una grande autorità.
«Gli adulti sono ben strani» rifletté tra sé e sé il piccolo principe durante il viaggio.
Il secondo pianeta era abitato da un vanitoso.
— Ah! Ah! Ecco la visita di un ammiratore! — gridò da lontano il vanitoso non appena scorse il piccolo principe.
Giacché, per i vanitosi, gli altri sono sempre degli ammiratori.
— Buongiorno — salutò il piccolo principe. — Avete un curioso cappello.
— È per salutare, — rispose il vanitoso — per salutare quando mi acclamano. Sfortunatamente però da qui non passa mai nessuno.
— Ah, davvero? — domandò il piccolo principe che non capiva.
— Batti le mani una contro l’altra — gli suggerì il vanitoso.
Il piccolo principe batté le mani una contro l’altra. Il vanitoso salutò con modestia, sollevando il suo cappello.
«È più divertente della visita al Re» notò tra sé il piccolo principe. E riprese a battere le mani l’una contro l’altra. Il vanitoso ricominciò a salutare sollevando il cappello.
Dopo cinque minuti di quell’esercizio, il piccolo principe si stancò della monotonia di quel gioco.
— E per mandar giù il cappello, domandò, che si deve fare?
Ma il vanitoso non lo ascoltò. I vanitosi non ascoltano altro che le lusinghe.
— Tu mi ammiri veramente molto? — domandò al piccolo principe.
— Cosa significa “ammirare”?
— Ammirare significa riconoscere che io sono l’uomo più prestante, il più elegante, il più ricco e il più intelligente dell’intero pianeta.
— Ma se tu sei solo su questo pianeta!
— Fammi contento. Ammirami ugualmente!
— T’ammiro — disse il piccolo principe alzando un pochino le spalle, — ma come ti può importare così tanto?
E il piccolo principe se ne andò.
«Gli adulti sono decisamente molto bizzarri» disse semplicemente tra sé durante il viaggio.
Il pianeta seguente era abitato da un beone. Questa visita fu molto breve, ma infuse nel piccolo principe una profonda malinconia:
— Che fai? — domandò al beone, che sedeva silenzioso davanti a una quantità di bottiglie vuote e piene.
— Bevo — rispose il beone. Aveva un aspetto lugubre.
— Perché bevi? — gli domandò il piccolo principe.
— Per dimenticare — rispose il beone.
— Per dimenticare cosa? — s’informò il piccolo principe che incominciava a compiangerlo.
— Per dimenticare che provo vergogna — gli confidò il beone abbassando la testa.
— Vergogna per cosa? — indagò il piccolo principe, che desiderava aiutarlo.
— Vergogna di bere! — concluse il beone che si chiuse definitivamente nel suo silenzio.
E il piccolo principe se ne andò via perplesso.
«Gli adulti sono decisamente molto molto bizzarri» pensò tra sé durante il viaggio.
Il quarto pianeta era abitato da un uomo d’affari. Costui era così occupato che all’arrivo del piccolo principe non sollevò neppure la testa.
— Buongiorno, — gli disse — guardi che le si è spenta la sigaretta.
— Tre e due fa cinque. Cinque e sette dodici. Dodici e tre quindici. Quindici e sette ventidue. Ventidue e sei ventotto. Non ho tempo di riaccenderla. Ventisei e cinque trentuno. Ouf! In tutto sono cinquecentounmilioniseicentoventiduemilasettecentotrentuno.
— Cinquecento milioni di che?
— Eh? Sei ancora là? Cinquecento milioni di… non lo so più… Ho talmente tanto da lavorare! Sono uno serio io, non mi perdo in sciocchezze. Due e cinque sette…
— Cinquecento milioni di che? — ripeté il piccolo principe che non rinunciava mai a una risposta, una volta che aveva posto una domanda.
— L’uomo d’affari levò il capo:
— In cinquataquattro anni che abito questo pianeta, non sono stato disturbato che tre volte. La prima volta fu ventidue anni fa, quando uno scarabeo venne giù solo dio sa da dove. Faceva un baccano terribile e ho fatto quattro errori in una addizione. La seconda volta fu undici anni fa, a causa di un attacco di reumatismi. Sono troppo sedentario. Non ho tempo di bighellonare. Io sono uno serio. La terza volta… eccola qui! Dunque, dicevamo cinquecentounmilioni…
— Milioni di che?
L’uomo d’affari capì che non c’era speranza di essere lasciato in pace.
— Milioni di quelle cosette che si vedono alle volte nel cielo.
— Le mosche?
— Ma no, le cosette che brillano.
— Le api?
— Ma no. Dico quelle cosette dorate che fanno sognare a occhi aperti i perdigiorno.
— Ah… le stelle?!
— Giusto quelle. Le stelle.
— E che ci fai con cinquecento milioni di stelle?
— Cinquecentounmilioni seicentoventiduemila settecentotrentuno. Io serio, sono un tipo preciso.
— E che te ne fai di queste stelle?
— Che me ne faccio?
— Sì.
— Nulla. Le possiedo e basta.
— Tu sei il proprietario delle stelle?
— Sì.
— Ma io ho conosciuto un re che…
— I re non sono i proprietari. Loro ci «regnano». È molto differente.
— E a che ti serve essere proprietario di stelle?
— Mi serve per essere ricco.
— E a che ti serve essere ricco?
— Ad acquistare altre stelle, se qualcuno le scopre.
— «Questo,» rifletté tra sé e sé il piccolo principe, «ragiona un po’ come il mio beone.»
Tuttavia pose ancora alcune domande:
— Come possiamo possedere le stelle?
— Di chi sono? — ribatté, scontroso, l’uomo d’affari.
— Non lo so. Della gente.
— Allora appartengono a me, perché ci ho pensato per primo.
— E questo è sufficiente?
— Certo. Quando trovi un diamante che non appartiene a nessuno, è tuo. Quando trovi un’isola che non appartiene a nessuno, è tua. Quando hai un’idea per primo, tu la fai brevettare: è tua. E io sono il proprietario delle stelle, perché nessuno altro prima di me ha mai pensato di possederle.
— È vero, — disse il piccolo principe — e che te ne fai?
— Le amministro. Le conto e le riconto — disse l’uomo d’affari. — È un lavoro duro. Ma io sono uno serio!
Il piccolo principe non era ancora soddisfatto.
— Se un fazzoletto è mio, me lo posso mettere al collo e portarlo con me. Se ho un fiore, posso coglierlo e portarlo con me. Ma tu non puoi cogliere le stelle!
— Non posso, ma posso invece metterle in banca.
— Cosa vuol dire?
— Vuol dire che scrivo su di pezzo di carta il numero delle stelle di mia proprietà. E poi metto in un cassetto chiuso a chiave questo foglio.
— Tutto qua?
— Basta questo!
«È divertente» pensò il piccolo principe. «È abbastanza poetico. Ma non è una attività seria.»
Su quali fossero le cose serie il piccolo principe aveva delle idee piuttosto differenti dagli adulti.
— Ma — aggiunse — io possiedo un fiore che innaffio giornalmente. Possiedo tre vulcani che pulisco tutte le settimane, perché pulisco anche quello spento, non si sa mai. Io sono utile ai miei vulcani e al mio fiore. Ma tu non sei di alcuna utilità per le stelle…
L’uomo d’affari aprì la bocca, ma non trovò nulla da ribattere e il piccolo principe se ne andò.
«Gli adulti sono decisamente straordinari» disse semplicemente tra sé e sé durante il viaggio.
Il quinto pianeta era molto curioso. Era il più piccolo dei cinque. C’era giusto lo spazio per ospitare un lampione e il lampionaio. Il piccolo principe non riusciva a spiegarsi a che potessero servire, in un punto qualsiasi del cielo, su di un pianeta senza case, senza abitanti, un lampione e un lampionaio. Comunque si disse:
«Può darsi che quest’uomo sia irragionevole. Comunque è meno irragionevole del Re, del vanitoso, dell’uomo d’affari e del beone. Almeno il suo lavoro un senso ce l’ha. Quando accende il suo lampione, è un po’ come se facesse nascere un’altra stella, o un fiore. Quando smorza il suo lampione, manda a dormire il fiore o la stella. È un lavoro molto bello. È davvero utile perché è bello.»
Quando sbarcò sul pianeta salutò rispettosamente il lampionaio:
— Buongiorno. Perché stai spegnendo il tuo lampione?
— Questi sono gli ordini — rispose il lampionaio. — Buongiorno.
— E in cosa consiste questo ordine?
— Di spegnere il lampione. Buonasera.
E lo accese nuovamente.
— Ma perché lo riaccendi subito?
— Sono gli ordini — rispose il lampionaio.
— Non capisco — disse il piccolo principe.
— Non c’è nulla da capire — disse il lampionaio — gli ordini sono ordini. Buongiorno.
E spense il lampione.
Dopodiché si asciugò la fronte con un fazzoletto a quadretti rossi.
— Faccio un lavoro pesantissimo. Un tempo era accettabile. Si spegneva al mattino e si riaccendeva alla sera. C’era tutto il giorno per riposare e tutta la notte per dormire…
— E, da quel tempo, gli ordini sono cambiati?
— Gli ordini non sono cambiati, — disse il lampionaio — e proprio qui sta il dramma! Anno dopo anno il pianeta ha preso a girare sempre più velocemente e gli ordini non sono cambiati!
— E quindi? — disse il piccolo principe.
— Quindi ora che compie un giro al minuto, non ho più un secondo di riposo. Devo accendere e spegnere una volta al minuto!
— Quant’è buffo! Qui i giorni durano un minuto!
— Non è affatto buffo, — disse il lampionaio — È già passato un mese da quando abbiamo incominciato a conversare.
— Un mese?
— Sì. Trenta minuti. Trenta giorni! Buonasera.
E riaccese il suo lampione.
Il piccolo principe lo osservò, gli piaceva questo lampionaio che era così fedele alla consegna. Gli tornarono in mente i tramonti che lui si era andato a cercare spostando la sedia. Volle aiutare il suo amico.:
— Sai che io… io conosco un modo per farti riposare tutte le volte che lo desideri…
— Lo desidero in continuazione — disse il lampionaio.
Perché si può essere nello stesso tempo, scrupolosi e indolenti.
Il piccolo principe continuò:
— Il tuo pianeta è così piccino che puoi girarlo tutto in tre passi.
— Non hai che da camminare assai lentamente per restare sempre al sole. Quando ti vorrai riposare non hai che da camminare… il giorno durerà tutto il tempo che vorrai.
— Questo non mi servirà granché, — osservò il lampionaio — ciò che desidero di più è dormire.
— Non c’è soluzione — concluse il piccolo principe.
— Non c’è soluzione — ribadì il lampionaio — Buongiorno.
E spense il suo lampione.
«Costui, pensò il piccolo principe mentre proseguiva il suo viaggio, costui verrebbe disprezzato da tutti gli altri, dal Re, dal vanitoso, dal beone, dall’uomo d’affari. Tuttavia è l’unico che non mi sembra ridicolo. Forse perché si prende cura di qualcosa di diverso da sé stesso.»
Sospirò con rammarico e aggiunse:
«Questo qua è l’unico di cui potrei diventare amico. Ma il suo pianeta è assolutamente troppo piccolo. Non c’è posto per due…»
Quello che il piccolo principe non osava dirsi, era che quello che veramente rimpiangeva del pianeta erano sopratutto i millequattrocentoquaranta tramonti nelle ventiquattro ore!