Il Piccolo Principe di Antoine de Saint Exupery, dal capitolo 15 al 27.
Voce di Veronica Zito
Illustrazione di copertina Valentina Catto (www.valentinacatto.com)
Regia e Produzione Pierpaolo Bonante (www.pierpaolobonante.it)
Il sesto pianeta era un pianeta due volte più grande. Era abitato da un vecchio signore che scriveva dei libri ponderosi.
— Guardate! Ecco un esploratore! — annunciò quando vide il piccolo principe.
Il piccolo principe un po’ ansimante si sedette sul tavolo. Aveva già viaggiato così tanto!
— Da dove provieni? — gli domandò il vecchio signore.
— Cos’è questo grosso libro? — domandò in risposta il piccolo principe. — Che fate qui?
—Sono un geografo — disse il vecchio signore.
—Cosa fa un geografo?
— È un erudito che conosce la posizione dei mari, dei fiumi, delle città e dei deserti.
— Questo è molto interessante — disse il piccolo principe. — Questo sì che è un vero mestiere! E diede uno sguardo tutto intorno al pianeta del geografo. Non aveva ancora visto un pianeta così maestoso.
— È davvero bello il vostro pianeta. Ci sono degli oceani?
— Non lo so — rispose il geografo.
— Ah! (Il piccolo principe era deluso.) E delle montagne?
— Non lo so — rispose il geografo.
— E delle città e dei fiumi e dei deserti?
— Non so neanche questo — rispose il geografo.
— Ma voi siete un geografo!
— Questo è esatto — disse il geografo — ma non sono mica un esploratore. Non ho esploratori al mio servizio. Non è il geografo che va a fare la ricognizione delle città, dei fiumi, delle montagne, dei mari, degli oceani e dei deserti. Il geografo è troppo prezioso per andare in giro. Non lascia mai il suo studio. Ma riceve gli esploratori, li interroga e trascrive i loro ricordi. E se i ricordi di uno di loro gli sembrano interessanti, il geografo mette in piedi una inchiesta sulla moralità dell’esploratore.
— Perché?
— Perché un esploratore che mentisse porterebbe scompiglio nei libri di geografia. Come anche un esploratore che beve troppo.
— Perché? domandò il piccolo principe.
— Perché i brilli vedono doppio. Quindi i geografi segneranno due montagne, là dove non ce n’è che una sola.
— Conosco un tale — disse il piccolo principe — che sarebbe un cattivo esploratore.
— È possibile. Dunque, quando la moralità dell’esploratore sarà comprovata, si procederà con una inchiesta sulla sua scoperta.
— Qualcuno va a vedere?
— No. Troppo complicato. Ma si esige che l’esploratore fornisca delle prove. Per esempio, se si tratta della scoperta di una grande montagna, allora si esige che egli esibisca delle grosse pietre.
All’improvviso il geografo si commosse.
— Ma tu, tu vieni da lontano! Tu sei un esploratore! Mi devi descrivere il tuo pianeta!
Il geografo aprì il suo taccuino e prese a temperare la sua matita. In prima battuta le relazioni degli esploratori vengono annotate a matita. Per la trascrizione a penna, si aspetta che l’esploratore abbia fornito delle prove.
— Allora? — lo interrogò il geografo.
— Oh! — disse il piccolo principe — da me non è molto interessante, è tutto piccolo. Ho tre vulcani. Due vulcani attivi e uno spento. Ma non si sa mai.
— Non si sa mai — confermò il geografo.
— Ho anche un fiore.
— Non prendiamo nota dei fiori — disse il geografo.
— Perché?! È la cosa più bella!
— Perché i fiori sono effimeri.
— Che significa: «effimeri»?
— I testi di geografia — disse il geografo — sono i libri più preziosi di tutti. Non sono mai superati. È molto raro che una montagna cambi di posto. È molto raro che un oceano si prosciughi. Noi descriviamo fatti eterni.
— Ma anche i vulcani estinti possono risvegliarsi — lo interruppe il piccolo principe — che significa «effimeri»?
— Che i vulcani siano spenti o attivi, per noi non fa differenza — spiegò il geografo. — Quella che conta per noi è la montagna, che non cambia.
— Ma che significa «effimeri»? — ripeté il piccolo principe che, in vita sua, non rinunciava mai a una risposta, una volta che aveva posto una domanda.
— Significa «che è minacciato di prossima sparizione».
— Il fiore è minacciato di prossima sparizione?
— Certo.
«Il mio fiore è effimero» disse tra sé il piccolo principe «e non ha che quattro spine per difendersi dal mondo! E io l’ho lasciato là da me tutto solo!»
E per la prima volta si sentì cogliere dal rimorso.
Ma si fece coraggio:
— Cosa mi consigliate di andare a visitare? — domandò.
— Il pianeta Terra — rispose il geografo. — Ha una buona reputazione…
E il piccolo principe partì, sognando il suo fiore.
Il settimo pianeta fu dunque la Terra.
La Terra non è un pianeta qualsiasi! Conta centoundici re (compresi, ovviamente, i re africani), settemila geografi, novecentomila uomini d’affari, sette milioni e mezzo di ubriaconi, trecentododici milioni di vanitosi, cioè circa due miliardi di adulti.
Per darvi un’idea delle dimensioni della Terra, vi dico che prima che fosse scoperta l’elettricità bisognava tenere, sommando i sei continenti, una vera armata di quattrocentosessantaduemilacinquecentoundici lampionai.
Visto un po’ da lontano faceva uno splendido effetto. I movimenti di questa armata erano regolati come quelli di un balletto d’opera. Per primo c’era il turno dei lampionai della Nuova Zelanda e dell’Australia. Dopo di che, costoro avendo accesi i loro lampioni, se ne andavano a dormire. Quindi iniziavano il balletto i lampionai della Cina e della Siberia. Poi anch’essi rientravano tra le quinte. Allora veniva il turno dei lampionai della Russia e delle Indie. Poi di quelli d’Africa e d’Europa. Poi di quelli dell’America del Sud. Poi di quelli dell’America del Nord. E mai che sbagliassero la sequenza del loro ingresso in scena. Era grandioso.
Solo il lampionaio dell’unico lampione del Polo Nord e il confratello dell’unico lampione del Polo Sud conducevano una vita d’ozio e spensierata: lavoravano due volte all’anno.
Quando si vuole fare dello spirito capita che si dicano anche cose non vere. Non sono stato troppo onesto con voi nel raccontarvi dei lampionai. Rischio di dare un’idea sbagliata del nostro pianeta a quelli che non lo conoscono. Gli esseri umani occupano ben poco spazio sulla Terra. Se tutti i due miliardi di persone che popolano il pianeta stessero in piedi serrati come si fa ai raduni, potrebbero facilmente trovare posto in una piazza di metri ventimila per ventimila. Si potrebbe accalcare l’umanità intera sul più piccolo isolotto del Pacifico.
Gli adulti di certo non vi crederebbero. Pensano di occupare molto posto. Si vedono importanti come i baobab. Suggeritegli di fare dei conti. Adorano i numeri e questo gli piacerà. Ma non sprecate il vostro tempo su questa idea. È inutile. Voi vi fidate di me.
Una volta giunto sulla Terra, il piccolo principe fu molto stupito di non vedere nessuno. Gli era già venuto il timore di aver sbagliato pianeta, quando un anello del colore della luna si mosse nella sabbia.
— Buona notte — disse il piccolo principe a casaccio.
— Buona notte — rispose il serpente.
— Su quale pianeta sono caduto? — domandò il piccolo principe.
— Sulla Terra, in Africa — rispose il serpente.
— Ah!… Quindi sulla Terra non ci sono persone?
— Qui c’è il deserto. Non ci sono persone nel deserto. La Terra è grande — disse il serpente.
Il piccolo principe si sedette su di una pietra e levò gli occhi verso il cielo:
— Mi domando — disse — se le stelle brillano affinché ciascuno possa un giorno ritrovare la sua. Guarda il mio pianeta. È giusto sopra di noi… Ma com’è lontano!
— È bello — disse il serpente. — Che cosa sei venuto a fare da queste parti?
— Ho problemi con un fiore — disse il piccolo principe.
— Ah! — fece il serpente.
E tacquero.
— Dove sono gli uomini? — riprese infine il piccolo principe. — Ci si sente un po’ soli nel deserto…
— Ci si sente soli anche tra gli uomini — replicò il serpente.
Il piccolo principe lo guardò lungamente:
— Sei una buffa bestia — gli disse infine, — sottile come un dito.
— Ma ho più potere del dito di un re — replicò il serpente.
— Il piccolo principe sorrise:
— Non mi sembri molto potente… non hai nemmeno le zampe… non puoi neppure viaggiare…
— Posso portarti più lontano di una nave — affermò il serpente.
Si arrotolò intorno alla caviglia del piccolo principe, come un braccialetto d’oro:
— Riporto alla terra da cui sono venuti coloro che tocco — disse ancora. — Ma tu sei puro e vieni da una stella…
Il piccolo principe non rispose nulla.
— Tu mi fai pietà, sei così indifeso su questa Terra di granito. Ti potrò aiutare il giorno che rimpiangerai troppo il tuo pianeta. Posso…
— Oh! Ho capito molto bene — fece il piccolo principe — ma perché parli sempre per enigmi?
— Li risolvo tutti — disse il serpente.
E tacquero.
Il piccolo principe traversò il deserto e non incontrò che un fiore. Un fiore a tre petali, un fiore insignificante…
— Buongiorno — disse il piccolo principe.
— Buongiorno — rispose il fiore.
— Dove trovo gli uomini? — domandò gentilmente il piccolo principe.
Una volta il fiore, aveva visto passare una carovana:
— Gli uomini? Non ce ne sono più di sei o sette, penso. Sono passati degli anni da quando li vidi. Ma non si sa mai dove trovarli. I venti li sospingono. Non hanno radici, e questo li mette molto in difficoltà.
— Addio, — fece il piccolo principe.
— Addio, — rispose il fiore.
Il piccolo principe salì in vetta su di una alta montagna. Le sole montagne che aveva mai conosciuto erano i tre vulcani che gli arrivavano alle ginocchia. Usava il vulcano spento come sgabello. «Da una montagna così alta» rifletté «potrò vedere in un sol colpo il pianeta intero e tutti gli uomini…» Ma non vide altro che guglie di rocce aguzze.
— Buongiorno… — disse un po’ in giro.
— Buongiorno… — buongiorno… — buongiorno… — gli rispose l’eco.
— Chi siete? — domandò il piccolo principe.
— Chi siete… chi siete… chi siete… — rispose l’eco.
— Siate amichevoli con me, sono solo — disse lui.
— Io sono solo… io sono solo… io sono solo… — rispose l’eco.
«Ma quant’è buffo questo pianeta!» pensò allora. «È tutto secco, tutto a punta e tutto salato.»
«E gli uomini mancano d’immaginazione. Ripetono sempre quello che gli si dice… A casa mia avevo un fiore: parlava sempre per primo…»
Accadde che il piccolo principe, avendo lungamente camminato sulle sabbie, le rocce e tra le nevi, incontrò finalmente una strada. E tutte le strade portano dagli uomini.
— Buongiorno — disse.
C’era un giardino fiorito di rose.
— Buongiorno — risposero le rose.
Il piccolo principe le guardò. Assomigliavano tutte al suo fiore.
— Chi siete? — domandò lui stupefatto.
— Noi siamo le rose — dissero le rose.
— Ah — fece il piccolo principe…
Si sentì di colpo molto infelice. Il suo fiore gli aveva raccontato di essere il solo della sua specie in tutto l’universo. Ed ecco qua che in un solo giardino se ne potevano contare cinquemila tutti simili!
«Sarebbe molto contrariato,» si disse «se vedesse che… gli verrebbe una brutta tosse e fingerebbe di morire per sfuggire al ridicolo. E io sarei costretto a far finta di curarlo, perché altrimenti per umiliarmi così, si lascerebbe morire per davvero…”
Poi si disse ancora: «Credevo di avere la fortuna di possedere un fiore unico, invece possiedo solo una comunissima rosa. Lei e i miei tre vulcani che mi arrivano alle ginocchia e di cui uno, forse, è anche spento per sempre, non fanno di me chissà che gran principe…»
Si sdraiò sul prato per dormire e pianse.
Fu allora che comparve la volpe.
— Buongiorno — disse la volpe.
— Buongiorno — rispose educatamente il piccolo principe che si girò, senza però scorgere nessuno.
— Sono qui — disse la voce — sotto il melo.
— Chi sei? — chiese il piccolo principe. — Sei molto bella…
— Sono una volpe — disse la volpe.
— Vieni a giocare con me — le propose il piccolo principe. Sono così triste…
— Non posso giocare con te — rispose la volpe. — Non sono addomesticata.
—Ah! Scusami — fece il piccolo principe.
— Ma dopo averci riflettuto su, aggiunse:
— Che significa “addomesticare”?
— Tu non sei di qui, — disse la volpe — cosa stai cercando?
— Cerco gli uomini — rispose il piccolo principe. — Che cosa significa “addomesticare”?
— Gli uomini, — disse la volpe, — hanno i fucili e vanno a caccia. Questo è molto irritante! Allevano anche i polli. È il loro unico interesse. Cerchi polli?
— No, — disse il piccolo principe — cerco degli amici. Che cosa significa “addomesticare”?
— Significa una cosa che è stata purtroppo dimenticata, — rispose la volpe — significa “Creare dei legami…”
— Creare dei legami?
— Certamente — disse la volpe. — Per me tu non sei che un ragazzino, uguale a centomila altri ragazzini. Non ho bisogno di te. E neppure tu non hai bisogno di me. Per te non sono che una volpe qualsiasi, uguale a centomila altre. Ma, se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo. Io sarò per te unica al mondo…
— Comincio a capire — disse il piccolo principe. — C’è un fiore… credo che mi abbia addomesticato…
— Possibile — osservò la volpe. — Sulla Terra accade di tutto…
— Oh! non sulla Terra — disse il piccolo principe. La volpe sembrò molto incuriosita:
— Su un altro pianeta?
— Sì.
— Ci sono cacciatori su questo pianeta?
— No.
— Questo è interessante! E ci sono polli?
— No.
— Niente è perfetto — sospirò la volpe.
— Ma la volpe tornò alla sua idea:
— La mia vita è monotona. Vado a caccia di polli, gli uomini cacciano me. Tutti i polli si somigliano, e tutti gli uomini si somigliano. Dunque mi annoio un po’. Ma se tu mi addomestichi, nella mia vita ci sarà un sole. Riconoscerò un rumore di passi che sarà differente da qualsiasi altro. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra, il tuo mi chiamerà fuori dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù, i campi di frumento? Io non mangio pane. Il frumento non mi serve. I campi di frumento non mi dicono nulla. E questo è triste! Ma tu hai i capelli dorati. Allora sarà bellissimo quando mi avrai addomesticato! Il frumento, che è dorato, mi farà venire in mente te. E adorerò il rumore del vento tra le spighe…
— La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
— Se ti va… addomesticami! — gli disse.
— Mi va bene, — rispose il piccolo principe — ma non ho molto tempo. Ho amici da conoscere e molte cose da vedere.
— Non si conoscono che le cose che si addomesticano — sentenziò la volpe. — Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Si riforniscono dai mercanti di cose pronte all’uso. Siccome non ci sono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se vuoi un amico, addomestica me!
— Che si deve fare? — domandò il piccolo principe.
— Bisogna essere molto pazienti — rispose la volpe. — In un primo tempo ti siederai sull’erba un po’ distante da me, così. Io ti seguirò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Il linguaggio è una fonte di malintesi. Ma, ogni volta, potrai sederti un po’ più vicino…
Il piccolo principe ritornò all’indomani.
— Sarebbe meglio tornare sempre alla stessa ora — disse la volpe. Per esempio, se tu vieni sempre alle quattro del pomeriggio, alle tre io già comincerò ad essere felice. Più si avvicinerà il momento, più mi sentirò felice. Alle quattro comincerò ad agitarmi e sarò in apprensione; scoprirò allora qual’è il prezzo della felicità! Ma se tu vieni quando ti pare, non saprò mai quando preparare il mio cuore… c’è bisogno di riti.
— Che cos’è un rito? — disse il piccolo principe.
— È una cosa purtroppo dimenticata — rispose la volpe. È ciò che fa di un giorno un giorno differente dagli altri, una certa ora, un’ora differente dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Per questo il giovedì è un giorno fantastico! Io mi spingo fino al limite della vigna. Se i cacciatori non ballassero a giorni fissi i giorni sarebbero tutti uguali, e io non avrei più delle vacanze.
Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu prossima:
—Ah! — disse la volpe… piangerò.
— È solo colpa tua, — disse il piccolo principe — io non volevo farti del male, sei tu che mi hai chiesto di addomesticarti…
— Certo — rispose la volpe.
— Ma piangerai! — osservò il piccolo principe.
— Certo — disse la volpe.
— Allora non ci hai guadagnato niente!
— Ci ho guadagnato — rispose la volpe — il colore del frumento.
Dopodiché aggiunse:
— Torna al roseto. Capirai quanto la tua rosa sia unica al mondo. Quando ripasserai per dirmi addio e ti regalerò un segreto.
Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.
— Voi non siete affatto simili alla mia rosa, non siete ancora nulla — disse. Non vi hanno addomesticato e voi non avete addomesticato nessuno. Siete nello stato in cui era la mia volpe. Non era che una volpe qualsiasi, uguale a centomila altre volpi. Ma me la sono fatta amica, e ora è unica al mondo.
Le rose erano imbarazzate.
— Siete belle ma vuote — aggiunse. — Non si può dare la vita per voi. Di certo, un passante qualsiasi penserebbe che voi siete simili. Ma lei da sola è più importante di tutte voi altre insieme, perché è lei che ho innaffiato. Perché è lei che ho protetto con un paravento. Perché erano su di lei i bruchi che ho ucciso (salvo i due o tre che ho tenuto per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lagnarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa.
E ritornò dalla volpe:
— Addio — disse…
— Addio, — disse la volpe — Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale resta invisibile agli occhi.
— L’essenziale resta invisibile agli occhi — ripeté il piccolo principe per tenerlo a mente.
— È il tempo che hai speso per la tua rosa che l’ha resa così importante.
— È il tempo che ho speso per la mia rosa… — fece il piccolo principe per tenerlo a mente.
— Gli uomini hanno dimenticato questa verità — disse la volpe. — Ma tu non la devi scordare. Si diventa per sempre responsabili di chi si addomestica. Tu sei responsabile della la tua rosa…
— Io sono responsabile della mia rosa… ripeteva il piccolo principe per tenerlo a mente.
— Buongiorno — disse il piccolo principe.
—Buongiorno — rispose il controllore.
— Che fai? — chiese il piccolo principe.
— Raggruppo i viaggiatori a gruppi di mille — disse il controllore. — Invio i treni che li trasportano verso destra come verso sinistra.
Un treno rapido, illuminato e fragoroso con un tuono, fece tremare la cabina del controllore.
— Sono tutti molto di fretta, — disse il piccolo principe — che cosa cercano?
— Lo stesso macchinista lo ignora — rispose il controllore.
Sfrecciò in senso opposto un secondo rapido illuminato.
— Sono già di ritorno? — domandò il piccolo principe…
— Non sono gli stessi, — rispose il controllore — si sono avvicendati.
— Non erano contenti là dov’erano?
— Non si è mai contenti del posto dove si sta — disse il controllore.
Tuonò fragoroso un terzo rapido illuminato.
— Inseguono i primi viaggiatori — domandò il piccolo principe?
— Non inseguono nulla — rispose il controllore. — Là dentro si dorme o si sbadiglia. Solo i bambini schiacciano il loro naso contro i finestrini.
— Solo i bambini sanno quello che cercano — fece il piccolo principe. — Si trastullano con una bambola di pezza e diventa così importante che se gliela togli piangono…
— Fortunati loro — rispose il controllore.
— Buongiorno — salutò il piccolo principe.
— Buongiorno — rispose il mercante di pillole studiate appositamente per far passare la sete. Se ne assumeva una alla settimana e non si sentiva più il bisogno di bere.
— Perché le vendi? — chiese il piccolo principe.
— Sono un grosso risparmio di tempo — rispose il mercante. Gli esperti l’hanno calcolato: si risparmiano cinquatatre minuti alla settimana.
— E che te ne fai dei cinquantatré minuti?
— Ci fai quello che ti pare…
“Se io avessi da spendere” pensò il piccolo principe “cinquatatre minuti, m’incamminerei adagio verso una fontana…”
Eravamo all’ottavo giorno da quando il guasto mi aveva bloccato nel deserto, avevo ascoltato la storia del mercante bevendo l’ultima goccia della mia provvista d’acqua:
— Ah! — dissi al piccolo principe — sono davvero carini i tuoi ricordi, ma io non ho ancora riparato il mio velivolo, non ho più nulla da bere e sarei anch’io felice se potessi incamminarmi adagio verso una fontana!
— La volpe amica mia — prese a dire…
— Ometto mio, non si tratta più di volpi!
— Perché?
— Perché andiamo a morir di sete…
Non afferrò il mio ragionamento e mi rispose:
— È bene aver avuto un amico, anche se si va a morire. Io sono molto contento di avere avuto una amica volpe…
“Non si rende conto del pericolo”, mi dissi. “Non soffre mai la fame né la sete. Gli è sufficiente un po’ di sole…”
Ma mi guardò e diede una risposta ai miei pensieri:
— Anch’io ho sete… cerchiamo un pozzo…
Ebbi un moto di scoraggiamento: è assurdo cercare un pozzo, a caso, nell’immensità del deserto. Tuttavia ci mettemmo in marcia.
Marciammo delle ore, in silenzio, quando calò la notte, e le stelle presero ad illuminarsi. Le vedevo come in sogno, per via del po’ di febbre che avevo a causa dell’arsura. Le parole del piccolo principe danzavano nella mia memoria:
— Allora anche tu hai sete? — gli domandai.
Ma lui non rispose alla mia domanda. Mi disse semplicemente:
— L’acqua può fare bene anche al cuore…
Non capii la sua risposta ma mi tacqui… sapevo bene che non serviva fargli delle domande.
Era stanco. Si sedette e io dopo di lui. Dopo un momento di silenzio, aggiunse:
— Le stelle sono belle, per via di un fiore che non si vede…
— Sì — risposi, poi tacqui scrutando le pieghe di sabbia sotto la luna.
— Il deserto è bello — aggiunse…
Ed era vero. Ho sempre amato il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa riverbera in silenzio…
— Quello che rende più bello il deserto — disse il piccolo principe — è che nasconde un pozzo da qualche parte…
Rimasi sorpreso di comprendere all’improvviso il misterioso riverbero della sabbia. Quando ero ragazzino abitavo in una antico edificio, e la leggenda narrava di un tesoro lì nascosto. Certamente nessuno l’ha mai scoperto, né forse l’ha mai neppure cercato. Ma rendeva incantata questa casa. La mia casa celava un segreto nel profondo del suo cuore…
—Sì — dissi al piccolo principe — che si tratti di una casa, delle stelle o del deserto, quello che li rende belli è invisibile!
— Sono contento — disse — che tu la pensi come la mia volpe.
Siccome il piccolo principe s’addormentava, lo presi tra le braccia e ripresi la strada. Ero emozionato. Mi sembrava di trasportare un fragile tesoro. Mi sembrava pure che non ci fosse nulla di più fragile sulla Terra. Guardavo, alla luce della luna, quella fronte pallida, quegli occhi chiusi, quelle ciocche che vibravano al vento, e mi dicevo: “Quello che vedo non è che un guscio. Ciò che è più importante resta invisibile…”
Siccome le sue labbra dischiuse abbozzavano un mezzo sorriso mi dissi ancora: “È questo che mi commuove così tanto in questo piccolo principe addormentato, è la sua fedeltà per un fiore, è l’immagine di una rosa che da lui riverbera come la fiamma di una lanterna, anche quando dorme… ” E lo immaginavo ancora più fragile. Si deve ben proteggere la lanterna: un soffio di vento potrebbe spegnerla…
E, procedendo in questo modo, al levare del giorno trovai il pozzo.
— Gli uomini — disse il piccolo principe — si stipano nei treni rapidi, ma non sanno più quello che stanno cercando. Quindi sono irrequieti e girano a vuoto…
E aggiunse:
— Non ne vale la pena…
Il pozzo che noi avevamo trovato non sembrava il tipico pozzo del Sahara. I pozzi del Sahara sono dei semplici buchi scavati nella sabbia. Questo pareva il pozzo di un villaggio. Ma non c’era alcun villaggio, e credevo di sognare.
— È strano, — dissi al piccolo principe — è già tutto preparato: la carrucola, il secchio, la corda…
Rise, toccò la corda, e mise in funzione la carrucola. La carrucola gemette come fa una vecchia banderuola quando il vento si ridesta dopo aver dormito a lungo.
— Ascolta, — disse il piccolo principe — noi risvegliamo questo pozzo e lui canta…
Non volevo che si sforzasse:
— Lascia fare a me, — gli dissi — è troppo faticoso per te.
Lentamente issai il secchio fin sul bordo. Lo poggiai in modo che non si rovesciasse. Nelle orecchie perdurava il canto della carrucola e nell’acqua ancora tremolante, vedevo il sole tremolare.
— Ho sete di questa acqua, — disse il piccolo principe — dammi da bere…
Capii cosa aveva cercato!
Portai il secchio alle sue labbra. Bevette, gli occhi chiusi. Aveva il gusto dolce della festa. Quest’acqua era ben altro che un alimento. Era nata dal cammino sotto le stelle, dal canto della carrucola, dallo sforzo delle mie braccia. Era il cuore che la trovava buona come un dono. Quando ero un ragazzino, le luci dell’albero di Natale, la musica della messa di mezzanotte, la dolcezza dei sorrisi, tutto questo riverberava nei regali che avevo ricevuto.
— Dalle tue parti — disse il piccolo principe — gli uomini coltivano cinquemila rose nello stesso giardino… e non riescono a trovare quello che cercano…
— Non lo trovano — risposi…
— E tuttavia quello di cui sono in cerca potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua…
— Sicuramente — risposi.
Il piccolo principe aggiunse:
— Ma gli occhi sono ciechi. Si deve cercare con il cuore.
Avevo bevuto. Respiravo bene. La sabbia all’alba, ha il colore del miele. Ero felice anche per questo colore di miele. Perché dunque sentivo una pena…
— Devi mantenere la tua promessa — mi disse con dolcezza il piccolo principe, che di nuovo era seduto accanto a me.
— Quale promessa?
— Ti ricordi… una museruola per la mia pecora… io ho la responsabilità di quel fiore!
Estrassi dalla tasca i miei bozzetti. Il piccolo principe li guardò e disse ridendo:
— I tuoi baobab assomigliano un po’ a dei cavoli…
-Oh!
Io andavo così fiero dei miei baobab!
— La tua pecora… le sue orecchie… sembrano un po’ delle corna… e sono troppo lunghe!
E rise di nuovo.
— Sei ingiusto, ometto, io non sapevo disegnare che boa interi o aperti.
—Oh! può andare — rispose — i bambini capiscono.
Disegnai dunque una museruola. Provavo una stretta al cuore mentre gliela davo:
— Tu hai dei progetti di cui non mi hai parlato…
Ma non mi rispose, mi disse invece:
— Sai, la mia caduta sulla Terra… domani sarà l’anniversario…
Poi dopo un momento di silenzio, aggiunse:
— Ero caduto proprio da queste parti…
E arrossì.
E di nuovo, senza capire perché, provai uno strano dolore. Tuttavia mi sorse una domanda:
— Allora non fu per caso che otto giorni fa, la mattina che ti conobbi, andavi in giro, tutto solo, a mille miglia di distanza dalla prima regione abitata! Ritornavi verso il luogo dove eri caduto?
Il piccolo principe arrossì ancora.
E, esitando, aggiunsi:
— Per via, forse, dell’anniversario?…
Il piccolo principe arrossì nuovamente. Non rispondeva mai alle domande, ma, quando si arrossisce, questo significa “sì”, non è forse vero?
— Ah! — gli dissi — ho paura…
Ma mi rispose:
— Ora devi tornare al lavoro. Devi tornare al tuo velivolo. Ti aspetto qui. Torna domani sera…
Ma non ero stato rassicurato. Mi ricordai della volpe. Si rischia di piangere un po’ se ci si è lasciati addomesticare…
C’era, nei pressi del pozzo, il rudere di un vecchio muro di pietra. La sera del giorno seguente, non appena fui di ritorno dal lavoro che mi aveva tenuto occupato, scorsi da lontano il mio piccolo principe, seduto lassù con le gambe a spenzoloni. Lo sentii che parlava:
— Non te ricordi più? — diceva. — Non è assolutamente qui!
Una seconda voce senza dubbio, gli stava rispondendo, giacché gli replicò:
— Sì! Sì! L’ora è giusta, ma il posto non è questo…
Proseguii in direzione del muro. Non vedevo ne udivo alcuna persona. Tuttavia il piccolo principe replicò di nuovo:
— … Certamente. Raggiungimi dove iniziano le mie orme sulla sabbia. Non dovrai che aspettarmi. Sarò lì questa notte…
Ero a venti metri dal muro e non vedevo assolutamente nessuno.
Il piccolo principe aggiunse, dopo un attimo di silenzio:
— Hai un veleno che funziona bene? Sei sicuro che non mi farai soffrire a lungo?
— Mi bloccai con una stretta al cuore, ma continuavo a non capire.
— Ora va via — disse… — voglio scender giù!
In quel momento pure io abbassai gli occhi verso la base del muro, e feci un salto! Là c’era, ritto verso il piccolo principe, uno di quei serpenti gialli che ti fanno secco in trenta secondi. Cercando di estrarre di tasca il revolver presi a correre, ma avendo fatto rumore la serpe scivolò dolcemente tra la sabbia, come un getto d’acqua che muore, e, senza troppa fretta, s’intrufolò tra le pietre con un leggero suono metallico.
Arrivai al muro appena in tempo per raccogliere tra le mie braccia il mio ometto, pallido come la neve.
— Che storia è questa! Ora ti metti a parlare anche con i serpenti!
L’avevo liberato dalla sciarpa d’oro che indossava sempre. Gli avevo bagnato le tempie e l’avevo fatto bere. Ora non osavo domandargli più nulla. Mi guardava con gravità e mi cinse il collo in un abbraccio. Percepii il battito del suo cuore, era come quello di un uccello morente abbattuto da una fucilata. Mi disse:
— Sono contento che hai trovato quello che mancava al tuo motore. Puoi tornare a casa…
—Come lo sai?
Venivo appunto ad annunciargli che, contrariamente ad ogni previsione, ero riuscito nella mia impresa!
Non rispose alla mia domanda, ma aggiunse:
— Anche io, oggi, torno a casa…
Poi, malinconicamente:
— È molto più lontana… è molto più complicato…
Sentivo bene che stava accadendo qualcosa di straordinario. Lo stringevo tra le braccia come un bambino piccolo e tuttavia avevo l’impressione che mi scivolasse giù verticalmente in un abisso senza che io potessi fare nulla per trattenerlo…
Avevo uno sguardo serio, perduto molto lontano:
— Ho la pecora. Ho la cassetta per la pecora. E ho la museruola…
Sorrise con malinconia.
Aspettai a lungo, sentivo che a poco a poco si riscaldava:
—Ometto, tu hai avuto paura…
Aveva sicuramente avuto paura! Ma rise dolcemente:
— Avrò certamente più paura questa sera…
Di nuovo mi sentii gelare dal sentore di qualcosa di irreparabile. E capii che non sopportavo l’idea che non lo avrei mai più sentito ridere. Per me era come una fonte nel deserto.
— Ometto, voglio sentirti ridere ancora…
Ma mi disse:
— Questa notte, farà un anno. La mia stella si troverà proprio sopra il luogo dove sono caduto l’anno scorso…
— Ometto, dimmi che questa storia del serpente e dell’appuntamento e della stella non è che un brutto sogno…
Ma non rispose alla mia domanda. Mi disse:
— Quello che è importante non si vede…
— Sì…
— È come per il fiore. Se tu ami un fiore che si trova su una stella, è dolce, la notte, guardare il cielo. Tutte le stelle sono fiorite.
— Sì…
È come per l’acqua. Quella che tu mi hai dato da bere era come una musica, per via della carrucola e della corda… tu te lo ricordi… com’era buona.
— Sì…
— Tu guarderai le stelle, di notte. La mia stella è troppo piccolina perché ti possa mostrare dove si trova. Meglio così. La mia stella, sarà per te una delle stelle. Allora ti piacerà guardarle tutte… Saranno tutte tue amiche. E poi ti voglio fare un regalo…
Rise ancora.
— Ah! ometto, ometto amo sentirti ridere!
— Questo appunto sarà il mio regalo… sarà come per l’acqua…
— Che cosa vuoi dire?
— Le stelle non sono la medesima cosa per tutti. Per alcuni, i viaggiatori, le stelle sono delle guide. Per altri non sono che delle piccole lucette. Per altri ancora, che sono studiosi, sono dei problemi. Per il mio uomo d’affari erano dell’oro. Ma per tutti costoro le stelle tacciono. Tu, tu avrai delle stelle come non ne ha nessun altro…
— Che vuoi dire?
— Quando tu guarderai il cielo di notte, poiché io vivrò in una di quelle, poiché io riderò in una di quelle, allora, per te, sarà come se tutte le stelle ridessero. Tu avrai, tu solo, delle stelle che sanno ridere!
E rise ancora.
— E quando ti sarai consolato (ci si consola sempre) sarai contento di avermi conosciuto. Sarai per sempre mio amico. Avrai voglia di ridere con me. E aprirai qualche volta la finestra, così, per piacere… e i tuoi amici saranno sbalorditi di vederti ridere mentre guardi il cielo. Allora dirai loro “Sì, le stelle mi fanno sempre ridere!” e ti crederanno pazzo. Ti avrò giocato un brutto tiro…
E rise ancora.
—Sarà come se ti avessi dato, al posto delle stelle, un’infinità di sonaglini che sanno ridere…
E rise ancora. Poi tornò serio:
—Questa notte… lo sai… non venire.
— Io non ti lascerò.
— Avrò l’aspetto di uno che sta male… sembrerà come se stessi per morire. È così. Non venire a vedermi, non vale la pena…
— Io non ti lascerò.
Ma era in apprensione.
— Ti dico così… anche per via del serpente. Non deve morderti… I serpenti sono cattivi. Può morderti anche solo per il piacere…
— Io non ti lascerò.
Ma qualche cosa lo rassicurò:
— Vero è però che non c’è veleno nel secondo morso…
Quella notte non lo vidi incamminarsi. Senza far rumore si era dileguato. Quando riuscii a raggiungerlo procedeva deciso, di buon passo. Mi disse solamente:
-Ah! sei tu…
E mi prese per mano. Ma si angustiava ancora:
— Hai sbagliato. Ti dispiacerà. Sembrerò morto e non sarà vero…
Io restavo zitto.
— Cerca di capire. È troppo lontano. Non posso portare come me anche il mio corpo. Pesa troppo.
Io restavo zitto.
— Somiglierà a un vecchio guscio abbandonato. Non sono tristi i vecchi gusci…
Io restavo zitto.
Perse un po’ di coraggio. Ma fece ancora uno sforzo:
— Sarà bello, vedrai. Anch’io guarderò le stelle. Tutte le stelle saranno pozzi con una carrucola arrugginita. Tutte le stelle mi verseranno da bere…
Io restavo zitto.
— Sarà così divertente! Tu avrai cinquecento milioni di sonagli, io avrò cinquecento milioni di fontane…
E anche lui non disse più nulla, perché piangeva…
— È là. Lasciami fare un passo senza seguirmi.
E si sedette perché aveva paura.
Aggiunse:
— Lo sai… il mio fiore… ne sono responsabile! Ed è così delicato! È così ingenuo. Ha solo quattro spine per proteggersi dal mondo…
Mi sedetti, non riuscivo più a restare in piedi. Disse:
— Ecco… tutto qui…
Esitò ancora un po’, poi si alzò. Fece un passo. Io ero bloccato.
Ci fu solo un lampo giallo stretto intorno alla sua caviglia. Rimase immobile per un istante. Non gridò. Cadde con dolcezza, come cade un albero. Per via della sabbia, non fece nemmeno rumore.
E ora, sì, sono trascorsi già sei anni… Non ho ancora mai raccontato questa vicenda. I compagni quando mi hanno rincontrato erano ben contenti di rivedermi vivo. Io ero triste ma dicevo: “è la stanchezza”…
Ora mi sono un po’ consolato. Cioè… non proprio del tutto. Ma sono certo che è tornato al suo pianeta, perché, al levar del giorno, non ho ritrovato il suo corpo. Non era un corpo così pesante… E mi piace di notte ascoltare le stelle. È come se ci fossero cinquecento milioni di sonagli…
Ma ecco che mi viene in mente una cosa importante. La museruola che avevo disegnato per il piccolo principe… ho scordato di aggiungere la cinghia di cuoio! Non sarà riuscito a metterla alla pecora. Allora mi domando: “Che sarà successo sul suo pianeta? Può ben essere capitato che la pecora si sia mangiata il fiore…”
Delle volte mi dico: “Sicuramente no! Il piccolo principe ricovera tutte le notti sotto la sua palla di vetro il suo fiore, e sorveglia bene la sua pecora…” Allora sono felice. E tutte le stelle ridono dolcemente.
Altre volte mi dico: “Forse si distrae una volta o l’altra, e tanto basta! Una sera ha dimenticato di metterlo sotto la palla di vetro, proprio quando la pecora è uscita di notte, senza farsi sentire…” Allora i sonagli diventano tutti lacrime!
Si tratta di un mistero davvero grande. Anche per voi che amate il piccolo principe, come per me, nulla nell’universo può restare lo stesso se da qualche parte, chissà dove, una pecora che non conosciamo ha, o non ha, mangiato una rosa…
Guardate il cielo. Domandatevi: la pecora ha mangiato il fiore, sì o no? E vedrete come tutto cambia…
E nessun adulto potrà mai capire quanto questo sia importante!
Questo per me è il paesaggio più bello e più triste del mondo. È lo stesso paesaggio di prima, ma l’ho disegnato di nuovo per mostrarvelo bene. È qui che il piccolo principe apparve sulla Terra, e poi scomparve.
Guardate con attenzione questo paesaggio per essere sicuri di riconoscerlo, se un giorno viaggerete in Africa, nel deserto. E, se vi capitasse di passare di là, vi prego, non abbiate fretta, restate un momento sotto le stelle! Se poi un bambino vi viene incontro, se ride, che ha i capelli d’oro, se non risponde quando viene interrogato, voi indovinerete sicuramente chi è. Quindi, siate gentili! Non lasciatemi così triste: scrivetemi subito che lui è tornato…